DANTE, SENZA PAURA – INFERNO, CANTO 3

TRAMA

PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE,

PER ME SI VA NELL’ ETERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;

FECEMI LA DIVINA POTESTATE,

LA SOMMA SAPIENZA E IL DIVINO AMORE.

DINANZI A ME NON FURON COSE CREATE

SE NON ETERNE, E IO IN ETERNO DURO

LASCIATE OGNI SPERANZA O VOI CHE ENTRATE.

 

La Porta dell’Inferno. Il confine tra il mondo della luce e le tenebre eterne. Su di essa sono scritte queste terribili parole.

 

Dante non capisce il senso di questa sentenza, e chiede spiegazioni a Virgilio.

“Da qui in poi non c’è spazio per i vigliacchi” gli dice il maestro “Stai per incontrare coloro che hanno rifiutato Dio, e per questo hanno smarrito la ragione.”

 

 

(La Porta dell’Inferno – disegno di Ezio Anichini)

 

Appena passata la porta, ecco i primi dannati.

Si lamentano a gran voce, urlano di rabbia, si percuotono con violenti schiaffi: un rumore continuo, assordante, spaventoso.

 

Dante vuole sapere chi siano, quale colpa abbiamo commesso. E Virgilio risponde:

“Sono coloro che vissero senza infamia e senza lode”.

 

Si tratta degli IGNAVI. In vita non vollero scegliere né il Bene né il Male. Per questo si trovano qui, nell’anticamera del regno delle tenebre. Non li vuole nessuno: all’Inferno non sanno che farsene di loro, e il Paradiso non intende accoglierli, per non macchiare la propria purezza.

Tra di essi ci sono anche gli Angeli che, all’inizio dei tempi, non parteggiarono né per Dio né per Lucifero, ma fecero unicamente i propri interessi personali.

 

Virgilio dice a Dante di sbrigarsi: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” Non vale la pena perdere tempo con gente del genere.

 

Dante si sofferma ancora un momento, e vede quella moltitudine di anime rincorrere uno stendardo. Questo non si ferma mai: appena trova una posizione, subito si muove per andare altrove, girando e spostandosi in continuazione.

È la condanna adatta a coloro che, in vita, non seppero decidersi a scegliere una parte definita, ma si comportarono come delle banderuole, cambiando partito a seconda dei propri interessi.

 

Essi sono inoltre tormentati da mosconi e vespe, che li pungono sul corpo nudo, facendoli sanguinare. Il loro sangue cola a terra, dove viene bevuto da grossi vermi che strisciano tra i loro piedi.

 

Tra la folla delle anime Dante vede qualcuno che conosce, e soprattutto scorge l’ombra di colui / che fece per viltà il gran rifiuto.

 

Il cammino prosegue. I due viandanti giungono in vista di un ampio fiume.

Qui ecco un’altra folla di anime. Dante è impaziente di sapere chi siano, e lo domanda a Virgilio.

Il maestro sembra un po’ seccato della sua fretta, e gli risponde:

Le cose ti fier conte / quando noi fermeremo i nostri passi / sulla triste riviera d’Acheronte”.

 

Dante si becca il giusto rimprovero e, vergognandosi, tace fin quando arrivano al fiume.

 

D’improvviso sull’acqua appare una grande barca. Al timone vi è un vecchio con barba e capelli bianchi. Con voce irata si rivolge alle anime che si accalcano sulla riva:

“Malvagi, guai a voi! Non rivedrete mai più il cielo! Io sono venuto a prendervi per portarvi nelle tenebre eterne, nel fuoco e nel ghiaccio!”

 

Poi si rivolge a Dante:

“Tu sei ancora vivo! Cosa vuoi qui? Vattene subito!”

Ma Dante non si muove, e il vecchio aggiunge:

“Il tuo destino non è passare di qui. Un altro viaggio, un altro porto ti attendono, e una barca migliore di questa ti porterà.”

 

Virgilio interviene:

“Caronte, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”.

 

Caronte riunisce le anime che si spintonano per salire sulla barca, e colpisce con il remo quelle che si attardano.

La barca si allontana dalla riva, portando il suo triste carico. Ma prima ancora che sia arrivata dall’altra parte, ecco che una nuova folla di anime si raduna, smaniosa di passare.

 

 

(La barca di Caronte – disegno a stampa di Bartolomeo Pinelli)

 

D’improvviso si alza un vento violentissimo, e l’aria tenebrosa è squarciata da un lampo rosso. Dante, sconvolto, sviene.

 

 

COMMENTO

La Porta dell’Inferno è stata creata dalla Trinità: il Padre (Divina Potestate), il Figlio (Somma Sapienza) e lo Spirito Santo (Primo Amore). È più antica persino dell’Uomo, tanto che prima di essa furono create solo le cose eterne: il mondo, gli Angeli, i cieli. E si ergerà per sempre a segnare il confine tra il Cielo e l’Inferno.

 

Subito al di là della Porta, tra gli Ignavi, si sentono “diverse lingue, orribil favelle”. È chiaro che tra essi si trovano persone vissute anche in altri luoghi e tempi, fin dagli inizi del mondo.

 

Gli Ignavi sono stati inventati da Dante. Nella teologia e nella dottrina cristiana non vi è infatti traccia di questo particolare peccato. Si credeva infatti che una persona dovesse essere per forza o buona o malvagia. Una “terza via” non era prevista.

Proprio per questo Dante li disprezza particolarmente, tanto da dire (con Virgilio) “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

C’è anche da dire che, come abbiamo visto ( https://stefanotartaglino.it/dante-senza-paura-episodio-3-cittadino-di-firenze ),  la politica italiana dell’epoca – di Firenze come di qualsiasi altra città – era fatta di partiti netti e contrapposti: Guelfi contro Ghibellini, Bianchi contro Neri.

Essere un buon cittadino significava anche prendere posizione, appoggiare – apertamente e per tutta la vita – una di queste fazioni. Non sceglierne stabilmente nessuna, passando dall’una all’altra solo per salvaguardare i propri interessi, era molto malvisto.

 

Una parola anche sugli Angeli che non scelsero né Dio né Lucifero. Non compaiono nella Bibbia, e la Chiesa non ne parla. Si accenna a loro solo in testi non compresi nel canone ecclesiastico e in alcune leggende medioevali.

 

E veniamo alla questione più complessa di questo Canto.

Chi è “colui che fece per viltà il gran rifiuto”?

 

La maggior parte degli studiosi di Dante segue i commentatori antichi, e pensa ad un Papa: Celestino V, il primo (e, fino a Benedetto XVI, unico) Papa che si dimise.

Si chiamava Pietro da Morrone, ed era un monaco che viveva da eremita. La sua rinuncia al Pontificato aprì la strada all’acerrimo nemico di Dante: Bonifacio VIII (abbiamo parlato di lui qui: https://stefanotartaglino.it/dante-senza-paura-episodio-5-esiliato ).

Celestino si dimise dopo pochi mesi, non sentendosi adatto al potere supremo. Sperava di ritornare alla tranquillità del suo eremo, ma Bonifacio VIII lo fece incarcerare (mentre non sembra, nonostante le voci che si rincorsero già all’epoca, che lo facesse anche uccidere).

La fama di santità che lo accompagnava fin da quando era eremita lo portò a essere canonizzato già nel 1313: oggi è venerato dalla Chiesa cattolica il 19 Maggio.

 

Ma allora perché Dante lo colloca all’Inferno? Possibile che sia solo perché la sua abdicazione diede la Chiesa in mano a Bonifacio VIII? E se non fosse lui il personaggio di cui si parla?

 

Tra le altre identificazioni proposte dagli studiosi, non sembrano convincenti quelle che indicano dei contemporanei di Dante. E appare debole anche quella, avanzata da alcuni, di Giuliano l’Apostata, l’imperatore romano che, con il Cristianesimo ormai trionfante, ripudiò la nuova fede per tornare al paganesimo.

 

Ne rimangono due. Esaù e Ponzio Pilato.

Esaù è uno dei più famosi personaggi dell’Antico Testamento, figlio di Isacco e fratello di Giacobbe. La sua storia è raccontata nella Genesi. Essendo il primogenito sarebbe dovuto succedere a Isacco come capofamiglia. Ma era ghiotto di lenticchie, e quando il fratello promise di cucinargliene un piatto in cambio della primogenitura, accettò lo scambio.

Ponzio Pilato è, come noto, il funzionario romano che portò a processo Gesù. La sua colpa sarebbe quella di non essersi deciso né a condannarlo né ad assolverlo, consegnandolo di nuovo alle autorità sacerdotali di Gerusalemme. Ma in altri passi della sua opera (nella Monarchia e poi nel Paradiso) Dante lo riconosce come legittimo giudice di Cristo.

 

La questione sembra dunque destinata a rimanere in sospeso. In mancanza di una risposta certa, possiamo prendere per buona la tradizionale identificazione con Celestino V.

 

Passiamo ora ad un tema molto importante: LE PENE DELL’INFERNO.

 

Abbiamo visto che gli Ignavi corrono senza posa dietro una bandiera, senza fermarsi mai. Al contrario di come fecero in vita.

Questa è la LEGGE DEL CONTRAPPASSO. Non fu Dante ad “inventarla”, ma fu lui a renderla famosa.

Secondo questa legge, le pene che i dannati dell’Inferno e le anime penitenti del Purgatorio devono sopportare ripropongono ciò che fecero in vita. E lo fanno in due modi: o per contrasto – come è appunto il caso degli Ignavi che qui trattiamo – o per analogia, esasperando un tratto particolare del peccato commesso (ad esempio i Lussuriosi, che nell’Inferno sono sospinti senza requie da un fortissimo vento e nel Purgatorio bruciano tra le fiamme: in entrambi i casi si sottolinea che si fecero travolgere dalla passione).

 

CARONTE è il primo dei grandi personaggi che si incontrano nella Commedia. Compare già nella mitologia greca: traghettava i morti negli Inferi, e si faceva anche pagare; infatti era usanza, nell’antichità, mettere due monete sugli occhi dei defunti, affinché potessero pagare il pedaggio.

Dante lo descrive in modo molto simile a come fece Virgilio nell’Eneide (Libro Sesto, versi 298 – 304): qui l’aderenza al suo modello è chiara, voluta.

Tuttavia mentre il demone classico compie il suo lavoro con grave compostezza – nonostante la richiesta di denaro – il diavolo dantesco è violento e terribile. Si placa solo quando Virgilio gli dice che il viaggio di Dante è voluto dal Paradiso.

Virgilio tra l’altro usa una formula (“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”) che ritornerà identica altre due volte, nell’incontro con altri diavoli.

 

 

FONTI:

 

Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968

 

Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele dell’Otto

 

La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003

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