DANTE, SENZA PAURA – INFERNO, CANTO 29

TRAMA

 

Dante è ancora nella Nona Bolgia, tra i Seminatori di Discordia. E piange.

 

Virgilio lo esorta a sbrigarsi. Nel mondo di fuori la luna è già sorta. Resta poco tempo, e ancora molte sono le cose da vedere.

 

Gli chiede però come mai pianga proprio in questa Bolgia, e non lo abbia fatto nelle altre più su.

 

Dante risponde:

 

“Tra questi peccatori mi pare di aver visto uno della mia famiglia, che patisce qui nell’inferno profondo la sua pena.”

 

Ma Virgilio è irremovibile.

 

“Pensa ad altro, e lascialo lì dov’è. L’ho visto venire sotto il ponte, e indicarti col dito. Ho anche sentito che lo chiamavano GERI DEL BELLO.

 

Tu eri ancora impegnato ad ascoltare le parole di Bertran de Born, e non hai guardato da quella parte, finché non se n’è andato.”

 

“Maestro, devi sapere che la sua morte non è ancora stata vendicata da nessuno della mia famiglia. Forse per questo non ha voluto parlarmi, e io provo ancora più pietà per lui.”

 

Intanto sono giunti sul bordo della Decima Bolgia, l’ultima.

 

Dal fondo si leva un coro di alti lamenti, tanto forte che Dante si copre le orecchie con le mani.

 

Alle grida di dolore si accompagna inoltre una puzza insopportabile, come di cadaveri che si decompongono.

 

Percorrendo l’argine, Dante può vedere meglio i peccatori riuniti in questa bolgia.

 

Sono i FALSARI, qui condannati dalla giustizia, che è al servizio di Dio.

 

È uno spettacolo di una tristezza infinita, superiore a quella che patì il popolo di Egina quando uomini e animali morirono tutti per una pestilenza. Gli antichi poeti attestano che l’isola fu ripopolata tramutando le formiche in persone.

 

I peccatori sono tutti ammassati gli uni sugli altri. Qualcuno si trascina penosamente carponi.

 

I due pellegrini camminano in silenzio, osservando quei poveretti che non riescono nemmeno ad alzarsi.

 

Dante ne vede due appoggiati l’uno all’altro per sostenersi almeno un poco. I loro corpi sono ricoperti di piaghe e croste. Si grattano in continuazione, tormentati da un prurito senza fine. Le unghie affondano nelle carni, le croste si staccano, cadendo a terra come le scaglie di un pesce che viene sfilettato.

 

Virgilio si rivolge a uno dei due:

 

“Tu che stai lì a grattarti, dimmi se fra di voi c’è qualche italiano.”

 

“Io sono italiano, e anche lui” risponde il peccatore “Ma tu chi sei?”

 

“Sono la guida di quest’uomo, e lo conduco ancora vivo giù per queste fosse, con l’intento di mostrargli tutto l’inferno.”

 

I due si staccano, perdendo il reciproco appoggio, e si voltano verso Dante.

 

“Chiedi loro ciò che vuoi” dice Virgilio, e Dante non si fa certo pregare.

 

“Che il vostro ricordo possa rimanere ancora per molto tempo lassù nel mondo.” comincia, per poi continuare “Ditemi chi siete e da dove venite. Che la vostra pena così ripugnante non vi trattenga dal rivelarvi a me.”

 

“Io ero di Arezzo” risponde il primo “e sono stato messo al rogo da Albero da Siena. Ma non è questo che mi ha condotto qui.

 

Gli dissi, scherzando, che ero capace di volare. Lui, che era più curioso che furbo, mi prese sul serio, e mi impose di insegnargli come fare. Quando non riuscii a renderlo un novello Dedalo mi fece bruciare vivo.

 

Ma in quest’ultima bolgia delle dieci sono condannato perché in vita praticai l’alchimia. Minosse mi ha giudicato, e non può sbagliare.”

 

Dante commenta, rivolto a Virgilio:

 

“Si è mai vista un popolo più sciocco e vanitoso dei Senesi? Superano di gran lunga anche i Francesi!”

 

Il secondo peccatore, udite queste parole di Dante, gli risponde:

 

“Da questi però devi togliere Stricca, che seppe moderarsi nelle spese, e Niccolò, che introdusse a Siena l’uso dei chiodi di garofano. E togli anche il gruppo di quelli tra cui stavano Caccia d’Asciano, che dissipò i propri averi, e l’Abbagliato, che regalò loro la sua sapienza.

 

Ma affinché tu sappia chi è d’accordo con te riguardo i Senesi, guardami bene in faccia. Vedi dunque che io sono Capocchio, quello che falsificò i metalli con l’alchimia. Ti ricorderai, spero, di come ero capace ad imitare bene la natura.”

 

 

COMMENTO

 

Un Canto solo apparentemente di transizione, con almeno un personaggio importante.

 

Nella Nona Bolgia, tra i Seminatori di Discordia, troviamo infatti un parente di Dante: GERI DEL BELLO.

È un suo cugino, ucciso durante le lotte tra famiglie che scossero a lungo Firenze e la Toscana.

 

Secondo la prassi dell’epoca, quando un membro di una famiglia veniva assassinato, l’onore imponeva di vendicarne la morte uccidendo un membro della stirpe rivale.

 

In questo caso però la vendetta venne messa da parte, e rimase in sospeso per molti anni. Ecco perché Geri, che ha riconosciuto Dante, rifiuta di parlargli.

 

C’è da dire che l’obbligo della vendetta riparatrice riguardava solo le famiglie nobili. Dante, sostenendo di dover vendetta per la morte del suo parente, ci sta anche dicendo che considera nobile la propria famiglia, cosa che invece non era.

 

Si passa infine all’ultima bolgia, la decima: qui sono puniti i FALSARI.

 

Non si tratta, come la parola potrebbe far pensare, solo di malintenzionati che falsificavano il denaro.

 

Incontreremo anche loro, ma più avanti, insieme ad altri tipi di falsari. Dante riunisce sotto una sola categoria molti tipi diversi di peccatori, come ha già fatto e farà altre volte.

 

In questo luogo sono puniti nello specifico coloro che si dedicarono all’ALCHIMIA.

Oggi è considerata, giustamente, una pseudo-scienza (anche se alcuni vi vedono, perlomeno per alcuni studi, un’antenata della Chimica), ma allora era presa molto sul serio.

 

Attraverso le pratiche alchemiche si cercava innanzitutto di fabbricare l’oro, attraverso l’uso della famosa Pietra Filosofale.

 

Più in generale però l’alchimia alterava la creazione di Dio, cercando di mutare la natura delle cose così come era stata stabilita all’inizio dei tempi.

 

Per questo gli alchimisti venivano condannati al rogo.

 

 

(Joseph Wright of Derby, Un alchimista in cerca della Pietra Filosofale scopre il fosforo, 1795 – Inghilterra, Derby Museum and Art Gallery

Il dipinto è, naturalmente, di molto posteriore all’epoca di Dante, ma rappresenta bene come doveva apparire, nel pensiero dei detrattori, lo studio di un alchimista)

 

 

Questa fu la fine, ad esempio, dei due personaggi che incontriamo in questa bolgia. I loro nomi oggi non ci dicono nulla, e senza Dante probabilmente si sarebbero persi nei secoli.

 

Questi dannati hanno come pena l’essere ricoperti di croste e piaghe, che provocano loro un prurito incessante.

Non è ben chiaro in che rapporto questa pena sia con la colpa d’esser “falsari” nel senso che abbiamo detto sopra.

 

Come rispettare dunque la legge del contrappasso?

 

Secondo alcuni commentatori Dante potrebbe aver saputo che gli alchimisti contraevano malattie dovute al continuo maneggiare sostanze nocive. E questo avrebbe imposto loro come pena eterna.

 

 

FONTI:

 

Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968

 

Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele Dell’Otto

 

La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003

 

 

Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Salerno Editrice 2018 (edizione speciale per il Corriere della Sera, 2 volumi, 2021)

 

Marco Santagata, Guida all’ Inferno, Mondadori 2013

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