TRAMA
La fiamma di Ulisse si allontana, e subito se ne approssima un’altra.
Le parole escono a fatica, ma infine Dante le comprende. Anche quest’anima, però, si rivolge al suo maestro.
“Tu che prima parlavi lombardo, fermati a discorrere anche con me, sebbene sia giunto in ritardo. A me non dispiace, vedi come brucio!
Se sei appena giunto in questo mondo buio dalla dolce terra d’Italia, dimmi, te ne prego, se la Romagna è in pace o in guerra. Io vengo da là, dai monti posti tra Urbino e la foce del Tevere.”
Dante è ancora chino verso il baratro della fossa, attento a udir bene le parole, quando Virgilio lo scuote.
“Parla tu, dunque. Quest’anima viene dall’Italia.”
Dante ha già la risposta pronta, e comincia a parlare:
“Oh anima che sei laggiù nascosta, la tua Romagna non è, e non è mai stata, senza guerra o tiranni che la opprimano. Per il momento, comunque, non ne è scoppiata nessuna.
Ravenna è così com’è da molti anni: l’aquila la copre con le sue ali, che si stendono fino a Cervia.
Invece la città che sostenne il lungo assedio dei Francesi, e ne lasciò molti morti davanti alle sue mura, è ora dominata da quelli del leone verde.
E i due mastini, il vecchio e il giovane, che presero prigioniero Montagna, stanno ancora là dov’erano prima.
Le città ove scorrono il Lamone e il Santerno sono governate dal leone in campo bianco, che però cambia di continuo alleati.
Quella che si stende sulle rive del Savio invece, così come sta tra la pianura e i monti, così oscilla tra libertà e tirannia.
Ora, te ne prego, dimmi chi sei. Non essere duro come furono altri, se il tuo nome è ancora famoso nel mondo.”
La fiamma tremola, e ne escono nuove parole.
“Se credessi che la mia risposta andasse a qualcuno che tornerà lassù nel mondo, tacerei immediatamente.
Ma poiché, se ho udito il vero, da questo abisso nessuno è mai tornato in vita, ti parlo senza timore di esser disonorato.
Io fui un condottiero, e presi poi il saio dei Francescani, sperando così di fare ammenda per i miei peccati.
Di certo vi sarei riuscito, se il Papa – che mal gliene incolga! – non mi avesse ricacciato nelle antiche colpe. E ora ti spiegherò bene come e perché questo è avvenuto.
Mentre ero in vita le mie azioni non furono da leone coraggioso, ma da volpe astuta.
Praticai tutti i sotterfugi e i maneggi, e li adoperai tanto bene che la mia fama si sparse in lungo e in largo.
Quando passò la mia giovinezza, ed entrai nell’età in cui si comincia a fare un bilancio della propria vita, quello che prima mi piaceva mi divenne disgustoso. Pentito, volli prendere i voti, e di certo mi avrebbe giovato.
Ma il principe dei nuovi Farisei era in guerra vicino al Laterano. E non con i Mori o con i Giudei: tutti i suoi nemici erano cristiani. E nessuno era partito per la crociata, né era stato mercante nelle terre del Sultano.
Non ebbe riguardo per la carica che egli stesso rivestiva, e nemmeno per l’ordine sacro a cui io mi ero votato.
Anzi, mi chiese consiglio, proprio come Costantino andò da papa Silvestro nel suo rifugio sul monte Soratte affinché lo guarisse dalla lebbra.
Io dapprima restai in silenzio, perché le sue parole mi parvero quelle di un folle.
Ma lui aggiunse << Scaccia il sospetto dal tuo cuore. Io ti assolvo fin da subito, e tu insegnami il modo migliore di conquistare Palestrina.
Io posso aprire sia i cancelli del cielo che quelli dell’inferno. Sono queste le due chiavi di cui il mio predecessore non ebbe cura. >>
Le sue argomentazioni mi convinsero, anche perché sapevo che tacere sarebbe stato peggio, e gli risposi:
<< Santità, poiché mi assolvete dal peccato nel quale sto per cadere, sappiate che trionferete dal vostro trono se farete promesse a lungo e poi le manterrete per poco tempo. >>
Quando poi morii, San Francesco venne a prendere la mia anima, ma fu fermato da un diavolo che gli disse:
<< Non portarlo via, mi faresti un torto. Deve scendere giù tra i miei dannati, poiché diede un consiglio fraudolento. È da allora che gli sto appresso, per averlo con me.
Chi non si pente non può essere assolto. E non si può pentirsi e non pentirsi nello stesso tempo: la contraddizione non lo consente. >>
Oh, povero me, che pena provai quando mi prese, dicendomi << Forse non pensavi che io sapessi usare la logica! >>
(San Francesco e un diavolo si contendono l’anima di Guido da Montefeltro – incisione di Bonaventura Genelli)
Mi portò da Minosse, che per otto volte si attorcigliò la coda intorno al corpo e poi, mordendosela per la gran rabbia, sentenziò:
<< Costui andrà tra i dannati del fuoco che nasconde le sembianze. >>
Per questo sono qui dove mi vedi, e mi dispero avvolto da questa fiamma.”
L’anima conclude qui il suo discorso, e se ne va lamentandosi con alti sospiri.
Dante e Virgilio attraversano il ponte che conduce alla bolgia successiva.
COMMENTO
Un Canto di non facile interpretazione, nel quale Dante usa molte perifrasi per indicare luoghi e personaggi all’epoca ben noti ma che oggi vanno ricostruiti con pazienza.
Partiamo dal protagonista.
Si tratta di GUIDO DA MONTEFELTRO.
Condottiero ghibellino, fu il più celebre uomo d’arme alla fine del Duecento.
Come egli stesso dice, in vecchiaia prese i voti, facendosi francescano. Una conversione che fece scalpore, e di cui si parlò molto. Dante, nel Convivio, aveva lodato questa scelta.
Il Papa che lo avrebbe convinto a ritornare sulla strada del peccato è, naturalmente, Bonifacio VIII, il grande nemico di Dante.
Il poeta accoglie per vera la credenza, forse infondata, secondo la quale Guido avrebbe consigliato in modo fraudolento il Papa per farlo trionfare sui suoi nemici.
Si trattava della potente famiglia nobile romana dei COLONNA.
Le loro numerose proprietà erano concentrate, in città, nella zona del Laterano. E possedevano anche una fortezza nel Lazio, a Palestrina, dove si asserragliarono per resistere all’attacco delle truppe papali.
Dante sottolinea come il Papa abbia fatto guerra non ai nemici della fede (Ebrei e Saraceni), ma ad altri cristiani. Un altro affondo contro il tanto odiato Pontefice. Lo chiama addirittura “principe dei nuovi Farisei”, con riferimento a coloro che vollero la morte di Cristo.
(I Farisei erano la più importante delle fazioni in cui era diviso il regno di Israele all’epoca di Gesù: ne abbiamo parlato QUI: https://stefanotartaglino.it/ebraismo-parte-quinta-in-nome-della-legge ).
La base del potere di Guido da Montefeltro era in Romagna. Ecco perché chiede a Dante notizie della sua terra.
Il poeta elenca varie città, e le famiglie che le governano.
RAVENNA è sotto il dominio dei DA POLENTA, la famiglia a cui apparteneva Francesca. Il loro stemma era appunto un’aquila.
FORLÌ è la città che proprio Guido da Montefeltro difese con successo dall’assedio dei Francesi. All’inizio del Trecento, morto ormai Guido, passò sotto il dominio della famiglia Ordelaffi, il cui stemma era un leone in campo verde.
RIMINI è ancora governata dai MALATESTA, la famiglia di Paolo e Gianciotto, entrambi figli di Malatesta il Vecchio e fratelli del suo primogenito Malatestino.
Le città bagnate dai fiumi Lamone e Santerno sono, rispettivamente, FAENZA e IMOLA. Entrambe sono sotto il dominio di un signore minore, il cui stemma era un leone in campo argento. Costui era noto per cambiare spesso alleanze.
L’ultima città nominata, presso il fiume Savio, è CESENA, che alterna momenti in cui si governa da sé ad altri in cui finisce sotto il dominio di qualcuno.
Guido da Montefeltro ricorda poi come finì all’inferno, quando sembrava invece che la sua anima fosse salva per intervento di San Francesco in persona.
E descrive la condanna inflittagli da Minosse, il giudice degli inferi (lo abbiamo incontrato QUI: https://stefanotartaglino.it/dante-senza-paura-inferno-canto-5 ).
FONTI:
Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968
Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele Dell’Otto
La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003
Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Salerno Editrice 2018 (edizione speciale per il Corriere della Sera, 2 volumi, 2021)
Marco Santagata, Guida all’ Inferno, Mondadori 2013