DANTE, SENZA PAURA – INFERNO, CANTO 26 (trama)

I due pellegrini risalgono l’argine che avevano disceso. Dante deve aiutarsi con le mani per issarsi tra le rocce e le pietre che ingombrano la strada.

 

Ben presto giungono sul bordo dell’Ottava Bolgia, quella dei CONSIGLIERI FRAUDOLENTI.

Il fondo della fossa è illuminato per ogni dove da fiamme ardenti. Paiono lucciole che nelle sere d’estate rischiarano i campi nascosti dal buio della notte.

 

Qui Dante autore ricorda ciò che provò incontrando gli spiriti puniti in quel luogo, e ammonisce sé stesso a non lasciar correre troppo il proprio ingegno, non senza la guida della virtù.

Poiché Dio gli ha fatto dono di un intelletto superiore, deve stare attento a usarlo per il meglio.

 

Avvicinandosi, nota che ciascuna fiamma avvolge un peccatore, e le parole di Virgilio gli confermano che ha visto bene.

 

Tra di esse però ne scorge una dentro la quale ci sono due spiriti insieme. Sopra le loro teste la fiamma si divide, formando due punte.

 

Chiede al maestro chi siano, e come al solito riceve una pronta risposta:

 

“Dentro quel fuoco sono puniti insieme Ulisse e Diomede. Uniti sfidarono l’ira divina, e uniti subiscono la giusta pena.

 

Tra le loro malefatte si annoverano: l’inganno del cavallo che portò alla distruzione di Troia, dalla cui rovine sorse la nobile stirpe dei Romani; il ritrovamento di Achille, strappato alla sua sposa Deidamia, che ancora adesso piange per lui; il furto del Palladio, l’effigie sacra che proteggeva Troia, senza la cui protezione la città era destinata a cadere.”

 

“Maestro, se da dentro quelle fiamme gli spiriti possono parlare, te ne prego, lascia che io vada da loro. Grande è il mio desiderio di conoscerli. Ti prego, ti prego mille volte, fa’ che io possa andare.”

 

“La tua preghiera è ben degna di lode, e io volentieri l’accolgo. Ho ben compreso ciò che vuoi sapere, ma ti esorto a tenere a freno la lingua. Essi furono Greci, e per questo potrebbero sdegnare di rivolgersi a te. Parlerò io con loro.”

 

Quando la doppia fiamma giunge loro vicino, Virgilio saluta rispettosamente gli spiriti che si agitano dentro di essa:

 

“Se io ho avuto qualche merito nei vostri confronti, che sia poco o molto, quando lassù nel mondo ho scritto il mio poema, fermatevi: e uno di voi mi dica dove, condannato dal Cielo, trovò la morte.”

 

La più grande delle due punte di fiamma comincia ad agitarsi, come mossa dal soffio del vento.

 

Poi, spostandosi di qua e di là, simile veramente a una lingua che parla, butta fuori la voce e inizia a raccontare.

 

“Circe mi aveva trattenuto per oltre un anno nel luogo che, più tardi, Enea avrebbe chiamato Gaeta. Dopo averla infine lasciata tornai alla mia casa, ma non fu per molto.

 

Non bastarono l’affetto di mio figlio, il rispetto che dovevo al mio anziano padre, l’amore che portavo a Penelope.

 

Dentro di me bruciava il desiderio di conoscere il mondo, di scoprire le virtù e i vizi dell’essere umano.

 

Così sciolsi di nuovo gli ormeggi, e volsi la prua verso il mare aperto. Con me c’erano quei pochi compagni che ancora non mi avevano abbandonato.

 

Percorsi tutto il Mediterraneo. Vidi la Sardegna, e poi la Spagna, il Marocco, e tutte le isole nel mezzo.

 

Quando giungemmo allo stretto passaggio che Ercole aveva segnato con le sue colonne, io e i miei compagni eravamo vecchi, vecchi e stanchi.

 

Sulla destra superai Siviglia, sulla sinistra andai oltre Ceuta. Avevamo passato il confine al di là del quale gli uomini non devono andare.

 

Amici – dissi allora ai miei compagni – siete sopravvissuti a mille pericoli, ed ora siete arrivati all’estremo Occidente. Vi resta poco da vivere. Vorreste dunque privarvi dell’esperienza di seguire il sole fino a quella parte di mondo dove non vive nessuno?

 

Tenete bene a mente quale fu la vostra origine.

 

FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI,

 

MA PER SEGUIR VIRTUTE E CANOSCENZA.

 

Con questo breve discorso riuscii a suscitare nei miei compagni un tale entusiasmo da doverli poi trattenere a fatica.

Lasciammo a poppa l’est e volgemmo la prua a ovest, procedendo sempre verso sinistra.

 

I remi erano come ali che spingevano la nave e noi in un volo folle.

 

Di notte scorgevamo già tutte le stelle dell’altro emisfero, mentre le nostre rimanevano nascoste sotto il lontano orizzonte.

 

Cinque mesi passarono dal momento in cui avevamo intrapreso il viaggio in quel mondo ignoto.

 

Improvvisamente apparve una montagna.

 

Era ancora tanto distante da sembrare scura, e più alta di qualsiasi altra avessi mai visto.

 

Grande fu la gioia per aver avvistato la terra, ma durò pochissimo. Ben presto si tramutò in pianto.

 

Infatti da laggiù sorse una tempesta, che colpì in pieno la nostra nave.

 

Per tre volte ci assalì, facendoci girare in tondo.

 

Alla quarta sollevò in alto la poppa e spinse la prua giù in basso. Certo fu per ordine di qualcuno.

 

Poi il mare si richiuse sopra di noi.”

 

 

(Ulisse e Diomede avvolti dalla fiamma – illustrazione di Paolo Barbieri, dal volume L’ Inferno di Dante, Sergio Bonelli Editore, 2021)

 

 

FONTI:

 

Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968

 

Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele Dell’Otto

 

La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *