TRAMA
Dante e Virgilio riprendono il cammino da soli. Ma il poeta ha paura.
È stato il suo desiderio di parlare con quel dannato, pensa, a far sì che i Malebranche lo tirassero fuori dalla pece e fossero poi da lui beffati.
Ora vorranno di certo vendicarsi, e sfogare la propria rabbia. Per questo si guarda alle spalle di continuo, sentendosi come la lepre incalzata dai cani da caccia.
“Maestro!” implora Virgilio “Nascondiamoci, te ne prego! Sento che i Malebranche stanno per raggiungerci, me li vedo già dietro di noi!”
“La tua paura è fondata, stavolta. Io pure temo il loro arrivo. Ma se riusciamo a scendere dall’argine destro nella prossima bolgia, non ci prenderanno!”
Virgilio ha appena finito di parlare, che ecco apparire i Malebranche, con le grandi ale tese.
Il maestro allora prende in braccio Dante, con la stessa sollecitudine di una madre che, sorpresa da un incendio nella propria casa, afferra il figlioletto e fugge, temendo più per lui che per se stessa, con indosso solo una camiciola. Scende nella nuova bolgia, riparandosi sotto l’argine.
È una fuga precipitosa, rapida come quella dell’acqua tra le ruote di un mulino. Virgilio tiene Dante stretto al proprio petto, come un padre che protegge il proprio figlio.
I Malebranche arrivano in cima all’argine. Ma non possono proseguire oltre: per ordine di Dio non è loro concesso lasciare la bolgia di cui sono guardiani.
Dante e Virgilio sono salvi.
Anche la nuova bolgia è affollata di peccatori. Camminano lenti, con passi stanchi. Indossano delle tonache con il cappuccio, simili a quelle dei monaci di Cluny.
All’esterno sono di color oro, tanto lucenti da abbagliare. Ma nella parte interna sono fatte di piombo, e così pesanti da far sembrare leggere quelle che l’imperatore Federico imponeva ai condannati.
Il peso di quei mantelli li fa procedere così lentamente che, ad ogni passo dei due pellegrini, nuove anime si palesano ai loro sguardi.
Dante chiede a Virgilio di indicargli qualcuno di famoso, per stirpe o per opere.
Un’anima, sentendo parlare toscano, grida: “Voi che camminate rapidi per questa oscurità, fermatevi. Forse posso esservi utile io.”
Virgilio si volta e dice a Dante: “Aspettalo. Girati e cammina piano come lui.”
Dante obbedisce, e vede venir verso di lui due anime impazienti di raggiungerlo, ma che il grande peso che portano e la strada stretta costringono a procedere lentamente.
Arrivate di fronte a lui lo osservarono a lungo, senza parlare. Poi commentarono tra loro:
“Costui sembra esser ancora vivo, poiché respira. E se invece sono morti entrambi, per quale privilegio non sono gravati dal peso dei mantelli?”
Infine si rivolgono a Dante:
“O Toscano, tu che sei arrivato qui tra noi IPOCRITI, dicci chi sei, non ti rifiutare.”
“Io sono nato e cresciuto nella grande città bagnata dall’Arno, e giungo qui ancora unito al mio corpo di carne.
Ma chi siete voi che piangete così tante lacrime? E quale pena è la vostra, che pur è così brillante?”
“I mantelli dorati sono di piombo così spesso da farci piangere, e cigoliamo come bilance sotto il peso.
Fummo Frati Gaudenti, entrambi di Bologna: io mi chiamo Catalano, e lui è Loderingo.
La tua città ci convocò entrambi per ricoprire la carica destinata di solito ad un solo uomo, per riportare la pace; e del nostro agire rimane a testimonianza la torre del Gardingo in rovina.”
Dante inizia a rispondere, ma si interrompe subito. Uno spettacolo insolito si presenta ai suoi occhi.
Dinanzi a lui un uomo è inchiodato a terra, crocifisso.
Vedendo Dante, inizia a contorcersi e lamentarsi.
Catalano, accortosene, dice al poeta: “Questo che tu guardi è quello che consigliò ai Farisei di far condannare un solo uomo invece di tutto un popolo.
Come vedi è posto di traverso in mezzo alla strada, e tutti noi lo calpestiamo, così che senta su di sé tutto il peso che portiamo.
Nello stesso modo, in questa fossa, sono puniti suo suocero e gli altri membri del concilio le cui decisioni furono per gli Ebrei origine di molti mali.”
(Jan Van Der Straet detto Giovanni Stradanio – Gli Ipocriti calpestano Caifa – disegno del 1587-88 – Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana)
Virgilio osserva stupito il dannato riverso a terra. Poi, rivolgendosi a Catalano, gli chiede:
“Diteci, se vi è permesso farlo, se sull’argine destro c’è un passaggio attraverso il quale io e il mio compagno possiamo uscire da questa fossa senza farci portare dai diavoli.”
“Non lontano da qui c’è un ponte che attraversa tutte le bolge, ma sopra questa è interrotto. Potete però arrampicarvi sulle rovine che sono cadute sul fondo di questa fossa.”
Virgilio sembra riflettere. Infine si rende conto, e lo dice ad alta voce, che nell’altra bolgia il diavolo Malacoda gli ha mentito riguardo al ponte.
Catalano commenta: “A Bologna ho sentito che il diavolo ha molti vizi, e tra questi che è un gran bugiardo, padre di ogni menzogna.”
Virgilio si incammina, ancora arrabbiato per non aver intuito l’inganno di Malacoda. E Dante lo segue, lasciandosi indietro gli ipocriti con il loro pesante carico.
COMMENTO
In questo Canto, per la prima volta, Virgilio dà ragione a Dante. Condivide la sua paura di essere catturato dai diavoli di Malebranche e fugge insieme a lui, proteggendolo con cura veramente paterna.
Alla fine, invece, è arrabbiato con sé stesso, per essersi fatto raggirare da Malacoda. La sua ragione, che è semplicemente umana e soprattutto pre – cristiana, non è in grado di svelare l’inganno del diavolo. Bisogna aver conosciuto Cristo, essere illuminati dalla sua luce, per scoprire la menzogna dietro il velo delle belle parole.
E bugiardi sono i dannati di questa bolgia: gli IPOCRITI.
La menzogna, per sembrare vera, deve essere bella. Ecco perché i mantelli che indossano sono brillanti all’esterno. Ma dentro sono di piombo: è il peso, la fatica di dover sempre mantenere la finzione.
Il peccato di ipocrisia è, naturalmente, ancora più grave quando a commetterlo sono uomini di Chiesa e di religione.
I peccatori incontrati da Dante sono infatti due frati.
Quello che parla è Catalano dei Malvolti, appartenente al partito dei Guelfi.
Il suo compagno, che rimane in silenzio, è Loderingo degli Andalò, che invece sosteneva i Ghibellini.
Entrambi furono chiamati dal governo di Firenze nel 1266 – dunque un anno dopo la nascita di Dante – per ricoprire insieme la carica di Potestà.
Era infatti usanza, a Firenze come altrove, di affidare questa carica a dei forestieri, i quali provenendo appunto da fuori non erano, in teoria almeno, invischiati nelle beghe interne della città che li convocava.
Scegliere insieme un Guelfo e un Ghibellino avrebbe dovuto garantire la pace a Firenze. Ma ovviamente così non fu: a testimoniarlo restano le rovine della torre del Gardingo, uno dei molti edifici distrutti durante gli scontri tra le famiglie dei due schieramenti.
Catalano definisce sé stesso e il suo compagno “frati godenti”.
Il termine NON vuol dire, come potrebbe sembrare, che fossero dediti ai piaceri della vita, nonostante il loro status di frati.
È invece un riferimento all’ordine monastico-cavalleresco a cui entrambi appartenevano, quello dei Cavalieri della Milizia della Beata Vergine Maria, detto “dei frati godenti” perché aperto anche a chi non aveva pronunciato i voti religiosi. Fondato a Bologna, tra gli altri, proprio da Loderingo, era costruito sul modello dei Templari, e fu ufficializzato dal Papa, ma ebbe vita breve.
Mentre parla con Catalano, Dante nota un peccatore disteso a terra, legato a dei picchetti.
Si tratta di CAIFA, Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme. Fu lui a far condannare Gesù. Sostenne infatti che, se l’avesse lasciato libero, si sarebbe scatenata una sommossa, e i Romani l’avrebbero inevitabilmente repressa nel sangue. Diceva quindi di agire per il bene del popolo ebraico.
Ma era una menzogna.
Il suo unico interesse era sostenere il proprio partito, i Farisei, che controllavano il Sinedrio, ovvero il consiglio che gestiva gli affari interni di Gerusalemme e della Giudea, al tempo già sotto il dominio di Roma.
(dei Farisei, e degli altri partiti ebraici di ispirazione religiosa al tempo di Gesù, abbiamo parlato qui: https://stefanotartaglino.it/ebraismo-parte-quinta-in-nome-della-legge ).
Per questo Caifa è il peggiore degli ipocriti, e viene calpestato dagli altri. Alla stessa pena sono condannati i suoi parenti e gli altri membri del Sinedrio, che si comportarono come lui.
FONTI:
Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968
Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele Dell’Otto
La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003
Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Salerno Editrice 2018 (edizione speciale per il Corriere della Sera, 2 volumi, 2021)
Marco Santagata, Guida all’ Inferno, Mondadori 2013