DANTE, SENZA PAURA – INFERNO, CANTO 16

TRAMA

I due pellegrini proseguono il cammino nella zona dei Violenti contro Natura. Già si ode il rombo delle acque che precipitano nei Cerchi sottostanti.

 

Dalla folle delle anime penitenti se ne staccano tre, che vengono di corsa verso Dante.

 

“Fermati!” gli gridano “Dall’abito che porti ci sembri uno che proviene dalla nostra stessa, corrotta città!”

 

Piaghe e ustioni ricoprono i loro corpi. Dante le fissa con orrore misto a pietà.

 

Virgilio lo ammonisce:

 

“Con queste anime bisogna essere cortesi. Fermati dunque a parlar con loro per un poco.”

 

Le tre anime, non potendo interrompere la propria corsa per non incorrere nell’ulteriore pena dei cent’anni di dolore, si mettono a girare in cerchio. Ciascuna, passando di fronte a Dante, volge il capo verso di lui.

 

Una di loro comincia a parlare:

 

“Forse le nostre preghiere a nulla valgono, poiché siamo condannati a soffrire in questo luogo terribile. E forse la nostra carne bruciata ti fa orrore. Ma almeno in nome della fama che avemmo in vita, dicci chi sei, tu che percorri tranquillamente l’inferno.

 

Questo che sta davanti a me, benché adesso sia nudo e ferito, fu di condizione elevata lassù nel mondo: si chiamava Guido Guerra, e fu ad un tempo abile politico e soldato valoroso.

 

Quest’altro che viene dietro di me invece è Tegghiaio Aldobrandi, la cui fama non dovrebbe essere ancora spenta.

 

Ed io, che con loro soffro questi tormenti, sono Iacopo Rusticucci. La mia pena è di certo inasprita dal comportamento scandaloso di colei che fu mia moglie.”

 

 

(Jan Van Der Straet detto Giovanni Stradanio –  I tre fiorentini – disegno del 1587-88 – Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana)

 

Dante vorrebbe scendere dall’argine e correre ad abbracciarli, Pensa che Virgilio gliel’avrebbe permesso, ma si trattiene per paura di bruciarsi sulla sabbia infuocata.

 

“Non è disprezzo quel che provo per voi, ma pietà. Già immaginavo, dalle parole di costui che mi è guida e maestro, che stavo per incontrare persone degne di ammirazione.

 

Io sono vostro concittadino: ho sempre sentito parlare bene di voi e delle vostre imprese, e a mia volta ho ripetuto quel che sentivo.

 

Io sono in cammino verso il dolce frutto che mi è stato promesso, dopo essermi lasciato alle spalle il dolore di questi luoghi. Ma prima debbo scendere fino al fondo dell’inferno.”

 

“Ti auguro di vivere ancora a lungo, e che dopo di te viva la tua fama. Dicci, ti preghiamo, se nella nostra città si trovano ancora, come un tempo, cortesia e valore, o se sono del tutto scomparsi. È arrivato da poco qui con noi Guglielmo Borsiere, e i suoi racconti ci preoccupano molto.”

 

“Oh, Firenze!” risponde Dante “Gentaglia senza onore e immense ricchezze accumulate in fretta han fatto nascere dentro di te l’orgoglio e l’arroganza, e tu già ne soffri!”

 

I tre interpretano questo sfogo di Dante come risposta ai loro timori. E, tutti insieme, gli rivolgono un’ultima preghiera.

 

“Se uscirai da questo eterno buio, e tornerai a riveder le belle stelle, ricorda il nostro nome, e fa’ che la gente continui a parlare di noi.”

 

Poi smisero di girare in tondo, e ripresero a correre con gli altri dannati, così veloci che le loro gambe sembravano ali.

 

Virgilio si incammina, e Dante lo segue. In breve tempo giungono vicino alla cascata, il cui rombo è così forte da coprire le parole.

 

Dante porta una corda legata alla cintola. Con essa, quando si era smarrito nella selva, aveva creduto di poter catturare la lonza.

 

Seguendo un ordine di Virgilio, se la scioglie dai fianchi e gliela porge.

 

Virgilio la prende e la getta giù nel burrone.

 

Dante è sorpreso da questo gesto apparentemente senza senso, e si chiede cosa possa mai significare.

 

Virgilio, che ormai ben conosce ciò che si agita nella mente del suo allievo, risponde:

 

“Tra poco arriverà quassù colui che sto attendendo. Tra un attimo vedrai ciò che il tuo pensiero si sforza di immaginare.”

 

E dall’abisso Dante vede salire un immenso mostro, che nuota nell’aria. Un essere fantastico, meraviglioso.

 

Dante pensa che non sarà creduto, e per questo si rivolge al lettore. Giura sulla sua stessa opera – che qui per la prima volta chiama Commedia – che sta dicendo la verità.

 

 

COMMENTO

Un Canto apparentemente di passaggio, che presenta alcuni personaggi ben noti all’epoca ma oggi dimenticati.

 

I primi tre erano nobili guelfi, il cui partito resse Firenze prima della vittoria ghibellina nella celebre battaglia di Montaperti (1260).

Il quarto, nominato ma non presentato, era legato alla classe dirigente fiorentina dell’epoca.

Tutti comunque morirono più o meno all’epoca in cui Dante nacque: il poeta infatti ha solo sentito parlare di loro, ed essendo anch’egli guelfo è naturale che ne serbi un buon ricordo. Ha infatti chiesto loro notizie a Ciacco, lassù nel Girone dei Golosi ( https://stefanotartaglino.it/dante-senza-paura-inferno-canto-6   ).

 

Il momento più importante, in questo Canto, è però la dura invettiva che Dante lancia contro Firenze.

Vale la pena riportare i versi:

 

La gente nuova e i sùbiti guadagni

orgoglio e dismisura han generata,

Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.

 

Con “gente nuova” Dante intende parlare delle nuove famiglie, spesso provenienti da fuori Firenze, che hanno scalzato dal potere le antiche stirpi aristocratiche.

 

I “sùbiti guadagni” sono le ricchezze che queste nuove famiglie accumularono in poco tempo. Prive di cultura, educazione e nobili valori – almeno secondo la visione di Dante – furono causa di discordie civili.

 

Dante deplora la decadenza dell’aristocrazia, e non sopporta questi nuovi ricchi che vivono fianco a fianco con le vecchie famiglie nobili, a volte nello stesso quartiere.

 

Lasciate anche queste anime, è tempo di scendere nel Cerchio successivo.

 

Dante, lo abbiamo visto, porta una corda stretta alla cintola. È stato proposto dagli antichi commentatori che gli servisse per rimanere casto, evitando di commettere il peccato di lussuria: ecco perché, come dice egli stesso, con quella corda avrebbe voluto catturare la lonza, lassù nella Selva Oscura.

 

La lonza, come si ricorderà, simboleggia la lussuria. Gettare via la corda significherebbe – sempre secondo gli antichi commentatori – che Dante ha ormai superato le insidie dei peccati legati alla lussuria, ed è quindi pronto per accedere ai livelli più bassi dell’inferno.

 

Dante si rivolge poi al lettore, giurando che quanto sta per dire è la pura verità. E giura sulla sua stessa opera, che qui per la prima volta viene chiamata commedia.

 

Il termine è da intendersi con il significato che aveva all’epoca: un componimento di argomento umile, scritto in uno stile semplice, e caratterizzato da un lieto fine.

 

Il Canto si conclude con l’apparizione di un enorme mostro, che conosceremo nel prossimo.

 

 

FONTI:

 

Commedia vol. 1. Inferno, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968

 

Inferno, Mondadori 2018, commento di Franco Nembrini, illustrazioni di Gabriele Dell’Otto

 

La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, UTET 2003

 

 

Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Salerno Editrice 2018 (edizione speciale per il Corriere della Sera, 2 volumi, 2021)

 

Marco Santagata, Guida all’ Inferno, Mondadori 2013

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