Il Dolce Stil Novo
Nella prima parte della sua vita Dante è un poeta fiorentino come tanti. In quegli anni la vera star è Guido Cavalcanti. Di famiglia ricchissima, è uno dei principali esponenti di un nuovo modo di fare poesia.
È quello che i manuali di letteratura chiamano DOLCE STIL NOVO. La definizione fu coniata da Dante stesso molti anni dopo, nel Purgatorio (canto 24°, versi 52 – 57):
«I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!»
Il tema trattato è, naturalmente, l’Amore. Il poeta ascolta ciò che l’Amore – quasi personificato, una sorta di speciale Musa – gli dice e lo trascrive pari pari. La donna amata viene considerata un’inviata del Cielo, mandata sulla terra per ispirare negli uomini le più alte e nobili passioni. L’uomo innamorato si eleva al di sopra degli altri grazie al sentimento che prova, e raggiunge la beatitudine semplicemente contemplando la visione di colei che ama.
Riprendendo un uso che era stato proprio degli antichi poeti latini (come Catullo e Ovidio) e che i moderni avevano invece abbandonato, gli stilnovisti tornano a dare un nome specifico alle donne da loro amate: Beatrice non è sola.
La poesia stilnovistica non è più, come le precedenti esperienze siciliana e provenzale, legata alle corti degli aristocratici, ma fiorisce all’interno delle città. Chi la pratica diventa un “aristocratico delle lettere”, perché è grazie allo studio e alla cultura che può affermare di essere superiore agli altri.
È facile immaginare quanta attrazione questo abbia avuto su Dante. La sua famiglia non è nobile di sangue, e non è abbastanza ricca per far parte del nuovo ceto imprenditoriale e bancario. Egli desidera ardentemente migliorare la propria condizione sociale. Al tempo stesso è profondamente convinto di avere le qualità necessarie per emergere.
In effetti le ha, tanto da venire accolto nella cerchia dei nuovi poeti. E questo nonostante gli altri gli siano tutti superiori quanto a ceto sociale. Lo stesso Guido Cavalcanti diventa il suo migliore amico: un rapporto vero, sincero, profondo, che però si interromperà bruscamente nel terribile anno 1301.
In questi anni Dante compone numerose poesie, e le fa circolare tra gli amici, che ricambiano con le loro. Scrivere una poesia in risposta a quella di un “collega” fa parte del gioco.
Dante riprenderà alcune di queste sue poesie giovanili per inserirle nella sua prima grande opera, la Vita Nuova, di cui parleremo tra poco. La maggior parte delle altre sono oggi raccolte sotto il nome collettivo di Rime.
Beatrice
E veniamo a colei che è universalmente nota come la Musa di Dante: BEATRICE.
Prima domanda: è realmente esistita o è solo una figura poetica?
Risposta: certo, è realmente esistita. Di cognome si chiamava Portinari, e proveniva da una famiglia molto in vista. Andò in sposa a Simone Bardi, esponente di una stirpe di facoltosi banchieri, e morì giovane. Fu, naturalmente, un matrimonio politico: i Bardi appoggiavano i Donati, e i Portinari, che invece appoggiavano i Cerchi, cercarono con questo matrimonio di assicurarsi un’alleanza per limitare i danni in caso di lotta aperta tra le due fazioni. Per lo stesso motivo gli Alighieri, che appoggiavano anch’essi i Cerchi, scelsero per Dante una moglie proveniente dalla famiglia Donati.
Seconda domanda: Dante era veramente innamorato di lei?
Risposta: no. Non secondo i canoni moderni. E secondo quelli dell’epoca? Nemmeno, anche perché i matrimoni erano decisi dalle famiglie. Però ne fece la figura centrale della sua attività letteraria, e questo già dalle prime rime sparse.
Nella realtà la vide solo due volte.
Secondo la tradizione la prima fu quando aveva 9 anni, ad una festa tenuta dai Portinari, alla quale suo padre era stato invitato. I Portinari e gli Alighieri abitavano nello stesso sestiere, ed erano entrambi schierati politicamente con i Cerchi. Il fratello di Beatrice, Manetto, era uno dei migliori amici di Dante, secondo solo a Guido Cavalcanti. Che le famiglie si frequentassero è dunque verosimile.
La seconda volta fu quando Dante aveva 18 anni, e Beatrice 16. Era già sposata. Dante la incontrò per la strada, mentre passeggiava in compagnia di altre due donne. Beatrice lo riconobbe e lo salutò.
Fine.
Nel 1290 Beatrice muore.
(Henry Holiday, Dante incontra Beatrice, 1883 – Liverpool, Walker Art Gallery)
La Vita Nuova
Qualche anno dopo la morte di Beatrice, Dante inizia a scrivere la Vita Nuova. Riprende alcuni dei suoi componimenti giovanili e li dispone in un ordine preciso, collegandoli tra loro con parti di trattazione in prosa.
L’intento è quello di raccontare la storia del suo rapporto con Beatrice, ovvero della progressiva elevazione morale e spirituale che egli ha raggiunto grazie a lei. Non si tratta dunque di un’autobiografia ancorata alla realtà, ma di una biografia ideale.
Come in ogni storia che si rispetti, non mancano i momenti di difficoltà, di smarrimento, di crisi.
Il primo si ha quando Dante decide, per prudenza, di non rivelare il nome della donna da lui amata, per proteggerla dai curiosi e dagli indiscreti. Finge dunque di amare non una, ma due altre donne, che chiama “donne dello schermo”. Con la seconda di queste la finzione va avanti al punto che gli altri iniziano a credere sia lei la vera donna amata: e Beatrice, venutolo a sapere, toglie il saluto a Dante.
Il secondo si ha al momento della morte di Beatrice. Dante è sgomento, sconvolto, prostrato dal dolore. Una donna che lo incontra per strada ha pietà della sua condizione, e lo consola. Sembra nascere un nuovo amore, che piano piano inizia a sostituire il vecchio. Ma infine Dante ha una visione in cui Beatrice gli appare in tutta la sua gloria, e capisce l’errore nel quale stava cadendo.
Essendo una biografia ideale, non vi sono riferimenti puntuali alla realtà. La camera di Dante, la sua casa, la stessa città di Firenze non sono descritte con precisione, ma appena accennate, sfumate.
Lo stesso vale per gli avvenimenti: una mezza parola, un saluto, un cenno della mano sono enormemente ingigantiti, caricati di una valenza morale e salvifica.
Bisogna però capire bene una cosa. Dante considera l’esperienza poetica come parte della sua vera vita vissuta. La Vita Nuova non è solo un esercizio di stile, una prova di virtuosismo da parte di un poeta. Diventa il modo in cui Dante riflette sul suo passato, rileggendolo alla luce di ciò che Beatrice gli ha mostrato. La morte prematura di lei porta solo alla scomparsa del corpo di carne e sangue. Ma il suo vero valore non ne è minimamente intaccato.
Beatrice inizia qui ad assumere i contorni di guida verso qualcosa di più alto e sublime. Viene amata non di un amore passionale e terreno, ma in quanto mezzo per raggiungere il vero Amore, quello verso Dio.
Questo suo nuovo ruolo sarà poi più apertamente mostrato nella Commedia.
Un poeta in famiglia
Dante fonda su Beatrice gran parte della sua produzione letteraria. Da poeta, trasforma la realtà. Fin qui tutto normale.
Ma in lui la finzione poetica diventa tutt’uno con la vita quotidiana. Il personaggio a cui dà le proprie fattezze nelle pagine scritte cammina fianco a fianco con lui nel mondo reale, finché i due si fondono.
Questo processo è favorito dal fatto che Dante ha, come abbiamo visto, un alto concetto di sé stesso. Un vero e proprio complesso di superiorità. Un sentimento che non verrà mai meno, neanche negli anni difficili dell’esilio, quando per tirare avanti dovrà vagare per le città del Centro e Nord Italia chiedendo un impiego ai potenti, in virtù della sua abilità con le parole.
Dal matrimonio con Gemma Donati nasceranno tre figli: due maschi, Pietro e Iacopo, e una figlia, Antonia.
Quest’ultima entrerà in convento, e assumerà il nome di Beatrice. Non è un caso, ovviamente. Anzi, sembra indicare, come del resto il lavoro di commento, promozione e diffusione della Commedia a cui si dedicheranno Pietro e Iacopo, che i figli conoscono bene l’opera del padre, e sono orgogliosi della fama che questi ha raggiunto già in vita.
È dunque da cancellare l’immagine, troppo spesso ancora riproposta, di Dante come un uomo perso nelle sue fantasticherie poetiche, che non si cura della famiglia e insegue il fantasma della sua donna paradisiaca.
Dante è però anche capace di scrivere poesie a carattere comico, grottesco, caricaturale. Appartengono al genere della cosiddetta tenzone, molto praticato nel Medioevo. Secondo le regole, due o più poeti scelgono un tema e scrivono a turno un componimento. I temi possono essere anche seri, ma ci si lascia volentieri andare.
Nel triennio 1293 – 1296 Dante mantiene una tenzone con uno dei suoi più cari amici: Forese Donati. Costui è nientemeno che il fratello del terribile Corso, violento e sanguinario capo della famiglia Donati e futuro leader dei Guelfi Neri, il partito che condannerà Dante all’esilio. Per il momento dunque, nonostante Dante appoggi la famiglia Cerchi, gli avversari dei Donati, l’amicizia e i legami familiari (Forese è cugino di Gemma, moglie di Dante) risultano più solidi dell’appartenenza politica. Una pace che, però, non è destinata a durare.
Ritroveremo Forese nei canti 23° e 24° del Purgatorio.
A Firenze Dante inizia pian piano a farsi un nome come letterato. Ma senza l’esperienza dell’esilio, e dunque senza la Commedia che da questa scaturisce, sarebbe forse rimasto uno dei tanti, importante, certo, ma non gigantesco.
FONTI:
Giorgio Barberi Squarotti (a cura di), Opere minori di Dante Alighieri. Vita Nuova, De Vulgari Eloquentia, Rime, Ecloghe, UTET 1983
Mario Pazzaglia, Letteratura italiana vol. 1. Dal Medioevo all’ Umanesimo, Zanichelli 1997 (terza edizione, quinta ristampa)
Alberto Casadei-Marco Santagata, Manuale di letteratura italiana medioevale e moderna, Laterza 2007
Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori 2012