La famiglia
Prima di diventare il Padre della Letteratura Italiana, Dante era un cittadino di Firenze. E prima di mettersi a scrivere poesia, indossò la cotta di maglia e andò in guerra.
Ma cominciamo dal principio.
La sua famiglia era moderatamente benestante, abbastanza da permettergli di dedicarsi agli studi e di vivere di rendita – finché rimase a Firenze, beninteso – ma non tanto da far parte dell’alta società.
Il padre era un prestatore di denaro. Usuraio, è stato spesso detto. Ma non è così semplice. Secondo la morale medioevale, usuraio era colui che praticava lo strozzinaggio ai danni della povera gente. Un’ attività fermamente condannata dalla Chiesa. Chi invece faceva girare denaro prestandolo alle famiglie influenti – nobili o del ceto mercantile e imprenditoriale – era considerato un rispettabile affarista, per nulla oggetto di riprovazione.
Della madre non sappiamo quasi niente. Morì quando Dante era ancora molto piccolo, e il padre si risposò. Dal secondo matrimonio nacque Francesco, che portò avanti il mestiere del padre e fu fondamentale per il quieto vivere di Dante, facendogli spesso da garante e custodendo parte delle proprietà di famiglia quando il poeta fu costretto all’esilio. Francesco non fu infatti toccato dalla condanna politica che colpì Dante, e poté continuare a vivere a Firenze.
La politica
Firenze era divisa in sestieri, una partizione che potremmo definire simile alle attuali Circoscrizioni, perlomeno dal punto di vista amministrativo. In campo politico ogni sestiere esprimeva il proprio rappresentante al governo della città.
Firenze, lo abbiamo detto, era un libero Comune, retto da un ordinamento repubblicano. Nel 1282 venne istituito un nuovo consiglio direttivo: quello dei Priori. Eletti dai cittadini, duravano in carica solo per due mesi.
Dante ricoprì questa carica intorno alla metà dell’anno 1300. Fu il punto più alto della sua carriera politica. Ma anche, come dice lui stesso, l’inizio e la causa di tutte le sue disgrazie.
Pur avendo scelto la strada degli studi letterari, Dante era infatti grandemente appassionato di politica, e lo resterà per tutta la vita.
Anche il suo matrimonio fu null’altro che un contratto politico. La sua famiglia, desiderosa di aumentare il proprio prestigio sociale, scelse per lui una moglie, Gemma, appartenente alla famiglia Donati.
I DONATI erano una famiglia di antica nobiltà, ma in declino, come del resto tutti gli aristocratici dell’epoca. I loro avversari diretti erano i CERCHI, ricchissimi ma di origini basse.
Gli Alighieri, i Cerchi, i Donati e anche i Portinari, la famiglia di Beatrice, abitavano tutti nello stesso sestiere, quello di Porta San Piero.
In generale, a Firenze come in altre città, l’ambizione dei ceti emergenti si scontrava con le resistenze delle antiche famiglie nobili. E l’opposizione non si limitava alla dialettica politica. Spesso si arrivava al confronto fisico, e persino all’omicidio.
La violenza era infatti una componente intrinseca della società medioevale, anche all’interno della stessa città. Certo, c’erano le guerre tra una città e l’altra, e le grandi scelte di campo tra Guelfi e Ghibellini. Ma l’uso della forza per far valere la propria posizione si esprimeva anche tra i cittadini di uno stesso Comune.
La faida degli Alighieri
C’erano poi le faide tra famiglie, che potevano trascinarsi per generazioni. Anch’esse erano così tipiche del tempo da venire, di fatto, regolamentate. Chi uccideva un rappresentante di una famiglia rivale per rispondere ad un precedente omicidio subito dalla propria stirpe non incorreva in alcuna pena.
Anche gli Alighieri avevano una faida in corso. I loro avversari erano i Sacchetti, famiglia nobile di antica stirpe. Nel 1287 i Sacchetti fecero la loro mossa, uccidendo GERI DEL BELLO, cugino del padre di Dante. Costui era senza dubbio un violento e un facinoroso, tanto che Dante lo collocherà all’Inferno, e precisamente nella Nona Bolgia, riservata ai provocatori di discordia.
Virgilio infatti gli dice:
<<io vidi lui a piè del ponticello /
mostrarti e minacciar forte col dito, /
e udì ’l nominar Geri del Bello»
(Inferno, canto 29°, versi 25 – 27)
Dante sa bene perché Geri lo minaccia e rifiuta di parlargli.
«O duca mio, la violenta morte
che non li è vendicata ancor», diss’io,
«per alcun che de l’onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ io estimo:
e in ciò m’ha el fatto a sé più pio»
(Inferno, canto 29°, versi 31 – 36)
L’omicidio di Geri infatti non è ancora stato vendicato. Una mancanza che porta il disonore sulla famiglia. Solo molti anni dopo, nel secondo decennio del Trecento, i nipoti di Geri, figli di suo fratello, uccideranno un membro della famiglia Sacchetti.
La vendetta, del resto, ha la memoria lunga.
Dante in guerra
Dante, lo abbiamo detto all’inizio, andò anche in guerra. Partì armato di tutto punto, e a cavallo, cosa non da poco. L’armamento se l’era pagato di tasca propria, come del resto faceva ogni soldato, fante o cavaliere che fosse. Infatti non esisteva ancora un intervento statale in materia di approvvigionamenti militari.
L’esperienza bellica di Dante fu comunque molto breve. Una sola battaglia: CAMPALDINO (1289). Firenze, città guelfa, insieme ad alcuni alleati aveva attaccato il territorio di Arezzo, città ghibellina. Ottenne la vittoria, riscattando così la batosta subita in un’altra celebre battaglia, Montaperti, nella quale a vincere erano stati i Ghibellini: una disfatta che rimase a lungo impressa nella memoria collettiva di Firenze.
Dante, lo sappiamo da fonti dell’epoca, fu schierato in prima linea, insieme ad altri cavalieri scelti. Lui stesso ci dice che provò una gran paura, perché all’inizio la carica della cavalleria aretina spinse indietro la linea di cavalieri fiorentini, ricacciandoli fin quasi ai carri dei bagagli. Ma i Fiorentini seppero resistere all’urto senza scompaginarsi e passarono al contrattacco.
(Modellino raffigurante Dante alla battaglia di Campaldino)
La bandiera gialla sulla lancia sarebbe lo stendardo del sestiere di Porta San Piero; le protezioni per il corpo comprendono cappello di ferro, usbergo e gambali in cuoio cotto; lo stemma sullo scudo è azzurro a sinistra e rosso a destra, attraversati da una fascia bianca: Alessandro Barbero, sulla base delle fonti, propende invece per i colori oro a sinistra e nero a destra, sempre attraversati da una fascia bianca.
Per la foto del modellino si ringrazia il sito www.parvimilites.it
A vittoria ottenuta Dante divenne baldanzoso, tanto da spingersi insieme ad altri fin sotto le mura di Arezzo, a provocare i difensori della città. Cita questo episodio nella Commedia:
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra
(Inferno, canto 22°, versi 1 – 6)
Appena due mesi dopo venne nuovamente arruolato per una campagna. Fece infatti parte di un piccolo contingente di cavalieri che Firenze inviò di rinforzo all’alleata Lucca nella sua lotta contro Pisa. Fu testimone della resa di un castello, e anche di questo ci parla nella Commedia, ma non sappiamo se abbia di nuovo combattuto.
FONTI:
Pierre Antonetti, La vita quotidiana a Firenze ai tempi di Dante, BUR 1988
Alessandro Barbero, Dante, Laterza 2020
Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori 2012